ROSARIO LIVATINO – Uomo, cristiano, magistrato. Quella “unità fondamentale” che lo ha fatto diventare santo.

La figura di Rosario Livatino non è tra le più conosciute e popolari tra quelle dei grandi uomini e donne che hanno donato la propria vita nell’adempimento del proprio lavoro, in favore della giustizia e della libertà. A ciò contribuisce probabilmente il fatto che di lui si continui a parlare con sobrietà e compostezza, proprio come semplice, pacato e riservato era il suo carattere.

Quando si parla di Livatino, spesso lo si appella come “il giudice ragazzino”. È opportuno essere chiari e spiegare da dove nasce questa espressione: fu l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga che definì in una maldestra dichiarazione “giudici ragazzini” una serie di giovani magistrati impegnati nella lotta alla mafia:

“Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta”

Dodici anni dopo l’assassinio, in una lettera aperta pubblicata dal Giornale di Sicilia e indirizzata ai genitori del giudice, Cossiga smentì che quelle affermazioni fossero riferite a Rosario Livatino, che definì invece “eroe” e “santo”.

Al di là delle strumentalizzazioni o delle facili polemiche – che qui poco ci interessano – penso che Livatino tutto sia stato meno che un “giudice ragazzino”. Lo si può considerare tale, forse, solo anagraficamente e con una connotazione positiva, considerando l’età in cui si inizia a fare carriera in magistratura. Livatino morì infatti a 37 anni, ma alle spalle aveva già un decennio di carriera. Un giudice giovane dunque, ma di certo non inesperto che mise in mostra subito grandi qualità, anche nella gestione di indagini complesse e scomode.

“Vivere la vita con la semplicità dell’uomo qualunque lo fa essere un uomo straordinario. Il Signore non ci vuole eroi, ci vuole grandi nella semplicità, come quella di Maria e Giuseppe, ci sono ma non ci sono, però lasciano il segno”.

Il suo modo di approcciarsi alla vita, di vivere sotto lo sguardo di Dio, partendo dall’ordinarietà della quotidianità, diventa un grande esempio concreto di uno dei frutti più significativi che il Concilio Vaticano II fece maturare nella Chiesa, ossia quella scelta religiosa del laico che, come noto, ha caratterizzato e continua a caratterizzare anche la nostra associazione dal Concilio ad oggi.

Spesso si discute sul fatto che la scelta religiosa possa condurre il laico a uscire dalla storia, dalla realtà. Sminuendola a una scelta che si accontenta di formare le persone a una fede intimistica, da vivere solo nel privato e ritirandosi dall’impegno nel mondo e per il mondo.

Scelta religiosa, in realtà, non ha mai voluto significare una rinuncia a impegnarsi nel mondo, ma rappresenta al contrario la consapevolezza di una chiamata, nella dimensione dell’impegno sul piano temporale, a essere credenti che vivono da cittadini onesti, consapevoli, generosi, capaci di stare nel mondo e di agire per il mondo, guidati da una retta e matura coscienza. La scelta religiosa del laico è quel modo di vivere la vita in tutti i suoi momenti e in tutti gli ambienti, cercando di essere portatori dell’amore di Dio, in una fede da dimostrare attraverso la testimonianza.

La scelta religiosa è ampiamente presente in Livatino: ogni giorno posteggiava la macchina vicino al tribunale e prima di iniziare la giornata lavorativa si recava in una chiesa vicina per raccogliersi in preghiera e affidare la sua giornata a Dio, consapevole di essere solo un uomo e come tale imperfetto, certo che il giudizio definitivo spetta solo ed esclusivamente a Dio. Livatino non fa il giudice, ma è giudice nella sostanza e nella forma, diventando fin da subito emblema dell’incorruttibilità in un sistema, così come altri, non sempre limpido. Nella sua ottica il giudice avrebbe dovuto togliere la libertà al condannato, non la dignità. Infatti al giudizio seguiva sempre un atteggiamento di disponibilità, prima di tutto a riconoscere la dignità della persona al di là del reato, in un tentativo mai sprecato di recupero umano e morale dell’imputato.

Questo atteggiamento si manifesta concretamente nel racconto di alcuni colleghi magistrati che ricordano Livatino come l’unico magistrato che si alzava, dava la mano all’imputato e lo accompagnava anche alla porta. Si racconta pure di un altro evento, sicuramente non usuale. Durante il Ferragosto, ritenendo che un detenuto dovesse essere rimesso in libertà, si recò da solo nel carcere di Agrigento per consegnare personalmente un ordine di scarcerazione. La sua presenza in quella calda giornata di festa meravigliò l’agente in servizio che gli chiese come mai si fosse scomodato in un giorno così particolare. Livatino rispose che quando in gioco c’è la libertà di una persona, non esiste una festa.

Il suo modo di penetrare lo sguardo del condannato era quello di un uomo che con amore cerca l’umanità che sta dentro ognuno di noi, anche dentro chi ha deciso in maniera più o meno volontaria di prendere la strada sbagliata. Più volte ha pianto davanti a qualche delinquente ucciso. E quando gli chiedevano le ragioni di quelle lacrime così inusuali, lui rispondeva che davanti a questi casi un credente deve per forza pregare, un non credente deve tacere.

L’acronimo S.T.D, che sta per “sub tutela Dei” ovvero “sotto lo sguardo di Dio”, ritrovato nelle sue agende dopo la morte, ci aiuta a comprendere la fede intima, profonda, a volte combattuta con cui Livatino vive ogni giorno, da uomo forte, deciso e capace di portare fino in fondo le sue idee nonostante le tante difficoltà e soprattutto nonostante il pericolo incombente.

Non si cada dunque nel facile errore di chi, polemicamente, rinviene una sorta di discriminazione tra il Livatino Beato e chi, ugualmente ucciso nell’adempimento del proprio dovere, non è stato elevato agli altari dalla Chiesa. Con Livatino il processo canonico di beatificazione ha appurato che è stata proprio la sua fede profonda e tangibile a portarlo ad essere testimone e martire. Difatti la Chiesa ha riconosciuto il suo come martirio in odiumfidei, cioè in odio alla fede. Lo ha ricordato il cardinale Semeraro nella sua omelia durante la cerimonia di beatificazione, in Cattedrale ad Agrigento:

“Credibilità fu per lui la coerenza piena e invincibile tra fede cristiana e vita. Livatino rivendicò, infatti, l’unità fondamentale della persona; una unità che vale e si fa valere in ogni sfera della vita: personale e sociale. Questa unità Livatino la visse in quanto cristiano, al punto da convincere i suoi avversari che l’unica possibilità che avevano per uccidere il giudice era quella di uccidere il cristiano”.

Ed è proprio questa unità inscindibile che oggi è la testimonianza più forte che Livatino ci lascia: come lui, uomo, cristiano e magistrato, anche noi siamo chiamati a non sdoppiare la nostra vita, ad essere coerenti con la nostra fede, anche se questo ci comporta fatica, sofferenza.

“È stato un uomo che ha saputo guardare lontano perché aveva gli occhi puliti. Pensando a lui ritorna alla mente “beati i miti”, perché era un uomo mite e l’uomo mite possiederà la terra.”

Livatino è un uomo che ha vissuto la sua povertà, ribaltando il “tu non sai chi sono io” dei mafiosi, in una vita vissuta con serietà ma anche e soprattutto con grande semplicità. Ha vissuto pienamente l’esperienza del povero di spirito, specialmente nei momenti di sofferenza dovuti al timore che altri potessero ricevere del male a causa sua, tanto da rifiutare la scorta e decidere di non farsi una famiglia, proprio per non mettere a repentaglio la vita di altre persone.

“La scrivania diventa la continuazione dell’altare, perché è lì che Rosario viveva il suo sacrificio quotidiano, il suo farsi pane spezzato. Quando vado in chiesa sento lo sguardo di Dio, anche in quell’ufficio attraverso lui arrivava lo sguardo di Dio, anche sul cattivo di turno”

Caro Rosario, adesso che sei beato il nostro impegno deve essere quello di non farti diventare un “santino”. Non limitiamoci alla tua immagine, ma impegniamoci ancora di più a capire l’essenza della tua testimonianza di santità della porta accanto. Da siciliani laici di Azione Cattolica come te, non possiamo che ringraziarti, per l’esempio luminoso della tua vita, in un momento storico in cui non sempre abbiamo il coraggio di manifestare la fede nei luoghi e nelle circostanze della nostra quotidianità con la semplicità e il coraggio che ti hanno contraddistinto. Tu sei una luce che può aiutarci a riconoscere la strada che attraverso il servizio, ci permette di essere riflesso dello sguardo di Dio, facendoci nel nostro piccolo pane spezzato. Grazie di tutto e intercedi per tutti noi.

Claudio Sgroi

Responsabile diocesano ACR

Segreteria